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Ragionamenti sulla semplicità dei computer

L’annuncio dell’iPad da parte della Apple alla fine di gennaio ha stimolato una discussione tra i designer e, più in generale, tra chi lavora nell’ambito della tecnologia, a proposito di quella che potrei chiamare la semplicità dei computer. Anche se non è una discussione nuova, pare che stia diventando sempre più urgente.

(Peraltro, so bene che quello che sembra urgente a me e a chi lavora nella tecnologia può essere di scarso interesse per tutti gli altri. Non mi faccio accecare dall’illusione che gli argomenti tecnologici debbano essere di primaria importanza per tutti.)

Non pensavo che avrei scritto sull’argomento, perché altri con un pubblico di lettori più ampio l’hanno già fatto (vedi Fraser Speirs e, in un’ottica leggermente diversa, Rob Foster), finché non ho visto la domanda che TUAW ha fatto ieri ai propri lettori, “Che cosa vorresti vedere in Mac OS X 10.7?” All’inizio mi è sembrato (forse non a torto) il classico articolo scritto in mancanza di meglio, ma poi mi sono reso conto di avere una risposta.

Un’idea che emerge dagli articoli di Speirs e Foster è che la gente passa davvero troppo tempo a perfezionare il funzionamento del proprio computer, o semplicemente a farlo funzionare, o a risolvere problemi che, nella maggioranza dei casi e degli utenti, sembrano del tutto immotivati. Il fatto che la maggior parte dei computer venga utilizzata attraverso un’interfaccia grafica non rende le cose meno complicate.

Le persone non leggono

Azzardo una stima dicendo che la maggioranza degli utenti pensano che i computer siano ostili e non comunicativi. È una falsa credenza, naturalmente. I computer potranno anche non essere amichevoli, ma non sono neppure ostili: esistono per risolvere problemi e per aiutare la gente a fare le cose. Inoltre i computer soffrono, se non altro, di un eccesso di comunicazione—e credo che sia questo a spaventare le persone. L’utente medio si perde nell’eccesso di stimoli verbali e visivi, che anche nel migliore dei casi non sono né spiegati né capiti davvero.

Le persone non leggono non perché siano pigre o stupide, ma perché non possono certo passare tutto il proprio tempo a cercare di capire la macchina. E certo, si potrebbe pensare che dopo più di venticinque anni di metafora della scrivania, di finestre e barre dei menu alcuni concetti potrebbero cominciare a restare in mente—ma non è sempre così. Ho provato di persona la frustrazione di chi parla con una persona che usa il computer (un Mac, persino) tutti i giorni da dieci o quindici anni, e si rende conto che per lei la parola “menu” o “icona” non significa un tubo.

Quando do consigli o assistenza al telefono, una delle mie solite domande è “Che cosa vedi?” La risposta più frequente è “Niente.” Per me questo dovrebbe significare una di queste due cose: il mio interlocutore è diventato cieco all’improvviso, oppure lo schermo del computer è diventato nero. In realtà invece significa che la sovrastimolazione visiva porta a una perdita di comprensione di alcuni elementi di base del funzionamento dell’interfaccia.

La topologia (il modo in cui gli oggetti sono disposti sullo schermo) è tra i primi elementi a essere fatti fuori: l’utente non riesce a riconoscere i confini tra gli oggetti, e quindi non esistono più finestre; si perde anche la metafora tridimensionale, al punto che l’utente non afferra più il fatto che i bottoni vengano premuti o che le finestre siano disposte una sopra l’altra. La perdita di controllo è così imponente che l’utente smette di vedere le parole sullo schermo in quanto entità dotate di significato, e le vede solo come parte della macchina: cose che il computer “mette lì” ma che non sono davvero lì perché l’utente le capisca o interagisca con esse.

Il fallimento dei designer

Più i designer capiscono la macchina, meno capiscono il modo in cui le persone la capiscono. (Lo so che usando la parola designer potrei generare un’altra incomprensione: non intendo dire “gente che disegna,” ma gente che fa sì che le cose funzionino nel modo in cui funzionano.)

Diciamolo: quando uscì il Macintosh nel 1984, poche persone usavano i computer. E a quel tempo usare un computer voleva dire interagire attraverso la riga di comando. La metafora della scrivania era facile—e molto più essenziale di quanto non lo sia oggi—ma era resa ancora più facile dal fatto che l’utente medio del computer aveva già familiarità con quello che questa metafora nascondeva: il file system.

Oggi le cose stanno in un altro modo. Anche le persone più organizzate che io conosca—organizzate nella vita—a volte non provano neppure a capire come usare nel modo giusto i file system dei loro computer. Neppure adesso che un nuovo Mac ha sempre delle cartelle Documenti, Filmati, Immagini pronte per l’uso. Comunque sia, questo non rende queste persone pigre o stupide. Le rende persone. La metafora della scrivania ha smesso di essere una metafora, semplicemente perché la gente non la riconosce più come tale. Scrivania (e, peggio ancora, desktop) è diventato solo un nome carino che qualcuno ha dato a una certa schermata sul mio computer, ma perché proprio non so, e non mi importa.

Ma alcuni designer non falliscono

Entra in scena la Apple. Davvero, non è perché sono follemente preso dai suoi prodotti che uso sempre la Apple come pietra di paragone. È perché, nella maggioranza dei casi, quando viene fuori un nuovo prodotto mi pare sempre che la Apple ci abbia preso. Meglio ancora, che mi abbia capito. E con l’iPhone e, ora, l’iPad non hanno capito solo me, ma anche tutti quelli che sono del tutto diversi da me. (E ancora una volta, i designer sono quelli che contribuiscono a fare di un prodotto ciò che è—che sia Steve Jobs con le sue idee o gli ingegneri che le mettono in pratica o gli architetti che danno loro un aspetto così assolutamente fantastico.)

La Apple capisce che qualsiasi metafora funzionasse per gli utenti dei computer nel 1984 potrebbe non funzionare più. Oppure potrebbe funzionare per una porzione degli utenti attuali—peraltro ridotta—ma che fare degli altri? Che fare di quelli che non hanno bisogno di cose complicate, che non hanno bisogno di decidere dove mettere un certo file, che non hanno bisogno di passare un’ora a cercare quel file che avevano nascosto così bene—che fare di loro?

Non andrò nel dettaglio delle ragioni per cui l’iPad funzionerà benissimo (magari non ancora in modo perfetto) in questo senso, perché, come ho detto, altri l’hanno già espresso meglio. Dirò solo che l’iPad cerca di rispondere alla questione del “che fare di tutti gli altri.”

Che cosa voglio da Mac OS?

Magari non succederà nel 10.7—magari è qualcosa che richiederà un nuovo numero di versione. Quello che vorrei davvero è un Mac OS con due facce: una per me e una per tutti gli altri. Ossia, semplicemente, la capacità di passare dall’interfaccia per un utente esperto a una in stile iPad, a seconda del bisogno.

Certo, il Mac ha già la possibilità di costringere l’azione di un utente, limitando le applicazioni che può usare o gli elementi dell’interfaccia che può manomettere. Ma anche questo non diminuisce la complessità dell’interfaccia, e di sicuro non dà all’utente una sensazione di controllo—direi piuttosto l’inverso.

Posso solo immaginare che cosa questo cambio di paradigma potrebbe comportare per tutto il software ora disponibile. Posso immaginare la resistenza da parte di certi produttori di software—quelli che non possono fare a meno dei loro menu interminabili che a malapena i tecnofili più esperti riescono a capire, o le loro tavolozze o le loro barre degli strumenti a più strati.

Non voglio sostenere un abbassamento dell’intelligenza delle interfacce. Non dico che i computer debbano essere più semplici. Anzi direi che non potranno che diventare più complessi. Ma complesso non deve significare per forza complicato. L’utente medio riuscirà ad apprezzare meglio la profondità e la ricchezza del funzionamento di un computer se riuscirà a usufruirne senza sentirsene sopraffatto.

Gli utenti del Mac si vantano sempre di quanto sia facile usare i loro computer—ma lo è davvero? Per l’utente inesperto continuano a essere tanto complicati (notare la parola che uso) quanto Ubuntu o Windows. Il fatto che l’utente esperto aiuti più volentieri amici e familiari a impostare i loro nuovi Mac invece di risolvere i loro problemi con Windows non significa niente. Proviamo solo a immaginare di diminuire quel tempo di iniziazione da cinque ore a mezz’ora. Immaginiamo un computer che sia davvero comprensibile e utilizzabile (ossia immediatamente produttivo) a cinque minuti dall’avvio, anche da uno che prima d’ora non abbia mai sentito il suono di avvio di un Mac. Immaginare tutto questo non è così difficile a questo punto, perché sappiamo che può anche succedere: l’interfaccia dell’iPhone/iPad è solo l’aperitivo.